(nella foto: illustrazione di una “crab claw sail” a Tikehau, Louis Choris, 1816)
Capitolo primo: Dove due marinai si dimenticano di chiedere un autografo; dei "veci" graesani si sorprendono; un mito della nautica ci porta dall'Atlantico al Pacifico; e in definitiva ci si rende conto che un solo capitolo non è sufficiente.
"Il mio nome è Wharram. James Wharram”
Igoumenitsa, novembre 2018 - Ero stato quasi completamente risucchiato nell’atmosfera irreale – luci, vento caldo, rumori dispersi del terminal di mare - quando Felix mi sussurrò “ma quello non è Wharram?” Seguii il suo sguardo e vidi una sagoma inconfondibile sormontata dal cappello australiano e, vicino, il suo pesce pilota, Hanneke Boom, la mano poggiata sul braccio con gesto affettuoso. Ci avvicinammo per un saluto e due chiacchiere.
Raccontammo che utilizzavamo due Tiki 26 per navigazioni mediterranee con soddisfazione. James sembrava stanco e distaccato, un sorriso fisso sulle labbra; la conversazione si svolse esclusivamente con Hanneke, gentile ed affabile, e fu breve anche a causa del nostro modestissimo vocabolario inglese. Poi Hanneke pilotò il suo grande vecchio altrove… non ho neppure pensato di chiedergli un autografo, avrebbe fatto piacere ad entrambi.
Per un breve momento eravamo entrati in contatto con un grandissimo personaggio della nautica da diporto, un precursore della navigazione su catamarano, le cui esperienze personali avevano dimostrato la validità di questo mezzo per noi nuovo e inizialmente malfamato (quando uscivo a Grado col mio prototipo del Mattia di Contreas gli anziani sul molo mi guardavano scuotendo la testa, ed erano piacevolmente sorpresi quando rientravo).
Nato in Scozia nel 1929, ficcanaso nautico e hippy ante litteram; nel 1953, a seguito di studi sui registri delle imbarcazioni del Pacifico, ispirato dal libro di De Bisschop “The voyage of the Kamiloa”, Wharram progetta e costruisce il primo catamarano oceanico, il Tangaroa, poco più di sette metri, per provare la validità del quale e delle proprie idee, traversa l’Atlantico con un meraviglioso equipaggio: Jutta Schultze e Ruth Merseburger (vedi foto), e raggiunge Trinidad (stremato, immagino, ma felice).
Nel 1957-58 costruisce, con l’aiuto di Moitessier (col quale esisteva un rapporto di reciprocità nautica) una doppia canoa di 12 metri, il Rongo, col quale navigherà l’Atlantico del nord da New York all’Irlanda: la prima traversata da ovest a est effettuata da un catamarano. La storia è raccontata nel suo libro del 1969 “Due ragazze due catamarani” (una delle tante letture suggerite nel nostro sito, pagina Wiki > Libri & Letture n.d.r.) Rafforzato nel ’73 il proprio legame affettivo e progettuale con Hanneke Boom, costruisce con i soci lo Spirit of Gaia, 19 metri, che costituisce una unità operativa dedicata allo studio della canoa indo-pacifica con cui naviga il Pacifico e intorno al mondo.
Nel 2008-2009 l’ultima impresa: a 80 anni, assieme ad Hanneke e agli equipaggi, concepisce ed effettua a bordo di due doppie canoe il “Lapita Voyage” dalle Filippine a Tikopia e Anuta nelle Isole Salomone, con interessanti risultati di archeologia marina sperimentale. Qui termina il mio excursus su Wharram: è l’ultimo dei mostri sacri che ci rimane. Se qualcuno è interessato ad approfondire il discorso, troverà in rete bibliografia, foto e filmati a iosa.
(il design del Lapita è stato concepito per dimostrare come dei colonizzatori del sudest asiatico potrebbero aver raggiunto le isole Hawaii)
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Capitolo secondo: Dove si illustra come e perché sono nati i poliscafi; si cerca di capire come, dal lontano Pacifico, siano riusciti a sedurre Europa e Stati Uniti; e si sottolinea come al Moma di New York manchino alcuni pezzi essenziali.
Prima di entrare nel merito della nostra storia, qualche cenno sui poliscafi. Le prime tracce rilevate tra i Tamil, India e Sri Lanka, cinquecento anni ante Christum: si trattava di barche da lavoro leggero, stabili e veloci, che si sono diffuse grazie alla semplicità costruttiva ed al poco impiego di legname, tra l’Indiano ed il Pacifico.
Vela comune la “crab claw sail”, nella quale la propulsione si attiva grazie alle turbolenze che scorrono lungo le due antenne, lasciando pressoché libera l’area centrale. Le esigenze locali determinarono le forme degli scafi:
- il proa (scafo grande / scafo piccolo)
- il catamarano (due scafi uguali)
- il trimarano (tre scafi uguali nell’accezione moderna) attribuendo:
al primo massima velocità e minima sicurezza
al secondo ottima velocità e buona sicurezza
al terzo ottima velocità e massima sicurezza
I poliscafi scuffiano? Certo. Affondano? Difficilmente, perché contengono delle riserve d’aria che contribuiscono al galleggiamento.
Nel lunghissimo periodo intermedio arrivano in Europa notizie fumose di poliscafi che hanno fatto cose notevoli; pioniere dei trimarani (in compensato marino) è Rudy Choy che scomparirà nel Pacifico.
Il testimone viene raccolto in Inghilterra, dove i Prout costruiscono lo Shearwater, ed in Francia, con l’Exocet. Negli USA Hobie Alter, grande surfista, costruisce nel ‘65 il primo Hobie 14, la pietra miliare. Barca di grande semplicità, il 14 è privo di derive: la funzione antiscarroccio viene assolta dalla forma dello scafo, verticale nel fianco esterno; la vela, sola randa, è steccata, e l’albero (anche scomponibile) è ruotante; sulla traversa poppiera insiste la rotaia della scotta randa che massimizza il rendimento alle portanti.
L’aIloggio del timoniere è costituito da un telo steso sul trampolino, sopraelevato rispetto agli scafi, sotto il quale il passaggio del vento e dell’onda è libero; gli scafi hanno una forma a banana che consente alle prue di restare, nonostante il poco volume, fuori acqua (al costo di un lavoro eroico di bilanciamento da parte del timoniere); le pale dei timoni hanno un sistema di automatismo comandato dalla barra di accoppiamento che consente l’immersione senza difficoltà.
Il peso è contenuto in 100 chili e questo, unitamente alla possibilità di scomporre l’insieme, consente di trasportare il tutto sul tetto della macchina. La robustezza, poi, è tale da consentire l’arrivo in spiaggia in velocità. Il successo è fulmineo: Hobie (morto nel 2014) diventa il capo di una multinazionale che sforna progetti a ripetizione. Primo tra questi lo Hobie 16, una barca evergreen, formativa nel campo dei cata- marani quanto il 470 nei monoscafi… di lui si dice ancora che è una barca molto tecnica (è l’unica che io conosca che scuffia di prua di lato e di poppa, quindi attenzione: quando qualcuno vi parla di barche molto tecniche… sospettate a prescindere).
Sherwater e Exocet non ebbero da noi nessun successo ma servirono a rimescolare acque stagnanti nelle quali le barche di riferimento erano la Star ed il Beccaccino. Passepartout fu il Tornado di Rodney March (1967), barca di concezione superiore destinata a passare agevolmente i 20 nodi, fantascienza all’epoca; ma si trattava di una barca d’elite, una vera macchina da guerra che suscitava timore.
Ma il terreno era stato preparato: ora serviva una barca a basso costo ed alte prestazioni. Nel 1968 John Mazzotti creò e costruì lo Unicorn, i cui piani erano accessibili agli autocostruttori ed il materiale, compensato marino, facilmente reperibile sul mercato. Entrambe le barche, Tornado e Unicorn, sono un esempio apicale di bellezza e funzionalità, degne entrambe di figurare al Moma di New York. (nella foto: due generazioni di Unicorn a confronto: la bellissima vela su albero tondo flessibile in primo piano e la randa top square con albero rigido sullo sfondo)
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